Testo di Sara Bonfili
Vi sono nelle Marche narratori che sembrano aver assunto l’insegnamento ghirriano del ‘pensare per immagini’, e che lavorano con fotografi di riferimento: uno fra questi è Angelo Ferracuti, che lavora con Mario Dondero dai tempi del settimanale de La Stampa, Diario, di Enrico Deaglio.
L’accoppiata scrittore-fotografo, va detto, non è nuova in Italia. Risale almeno al 1959 quando Pier Paolo Pasolini e il fotografo de Il Mondo Paolo Di Paolo percorsero le coste italiane da nord a sud. Dal resoconto pasoliniano emergevano chiacchiericci, difetti, turbolenze della penisola che stava, più o meno lentamente, cambiando. Il reportage uscì in tre puntate sulla rivista Successo.
Ferracuti s’inserisce in quella che lui chiama “sua seconda vita di scrittore”, nella ‘non fiction’. Viaggi da Fermo[i] racconta storie e paesaggi con l’occhio del reporter, così come Il mondo in una regione,[ii] Il costo della vita,[iii] I tempi che corrono.[iv]Attualmente lo scrittore sta lavorando con Ennio Brilli a un reportage nel Sulcis in Sardegna.
Cosa spinge uno scrittore a ricercare la propria materia con un fotografo?
Da una parte c’è un destino geografico, cioè l’esser cresciuto in una terra fotocentrica, le Marche, e in una città con una presenza altrettanto forte della cultura fotografica, cioè Fermo, dove operò Luigi Crocenzi, l’inventore del racconto fotografico neorealista, dall’altra l’aver incontrato quello che considero il mio Maestro, cioè Mario Dondero, in cui c’è una componente molto forte di avventura collettiva. Diciamo che lavorare insieme raddoppia la potenza di sguardo, di visione, e poi rinsalda quell’umanità molto forte che sta dentro le relazioni umane.
Quanto sono indelebili le proprie radici quando si viaggia?
Naturalmente lo sguardo di cui parlavo prima si forma principalmente dove si è nati. Ma i maestri possono essere tantissimi, a cominciare dai pittori per il modo come hanno concepito la rappresentazione dello spazio, e qui penso a Giotto, a Raffaello, che sono anche loro ‘radice’ di una certa Italia. Quindi quando si guardano le altre terre c’è sempre un confronto con le nostre per scoprirne meglio le diversità, non solo paesaggistiche, architettoniche, ma anche antropologiche.
Vorrei da lei un parallelo tra l’uso del dialetto e i particolari dei ritratti fotografici.
Certe inflessioni dialettali stanno in tutti gli scrittori, sono scorie della lingua italiana che hanno il pregio di arricchire, di rendere particolare lo stile. Certo nella lingua dialettale si conserva qualcosa di antico e profondo, quella cosa sinistra, quel particolare eccentrico che la fotografia riesce invece a cogliere miracolosamente con uno scatto.
La commistione di fiction e non fiction si lega all’immaginazione oltre la soglia di Luigi Ghirri?
Ghirri è legato a Celati e a un racconto (ma questo è il giudizio di uno che conosce poco la storia della fotografia) secondo me più intellettualistico, naturalmente innovativo ma diverso da quello umanistico di Dondero o etnico di Brilli, tanto per capirci. È un altro tipo di fotografo, così come Celati, grandissimo, è un altro tipo di scrittore. Sul resto, che dire? La fiction c’è sempre, quello che si è visto e si descrive non è quello che veramente si è visto e si descrive, ma la dimensione finzionale, anche negli scrittori con una vocazione realista come me, molto legati alla storia sociale, è sempre molto forte.
Com’è nato il sodalizio con Mario Dondero? Quali sono i principi che legano il vostro lavoro?
Ho conosciuto Mario credo una decina di anni fa, forse quindici. Osservando il suo modo di fare reportage mi sono talmente affascinato che ho smesso di scrivere fiction e ho iniziato quella che chiamo la mia seconda vita di scrittore. Una volta, invitati a Monfalcone per un lavoro sui lavoratori morti di amianto, mi disse che sarebbe stata un’ottima idea fare un reportage insieme per Diario, davvero una esperienza di giornalismo culturale unica nel panorama dell’ultimo ventennio. Uscì e fu il primo di tanti. Da lui ho imparato moltissimo, proprio come si fa, e soprattutto quella capacità straordinaria di entrare in empatia con gli altri, di darsi, partecipare a quella commedia umana che un Maestro come lui ha raccontato per tutta la vita in maniera umanissima. Credo ci unisca la curiosità per l’altro, la passione per il nostro lavoro e quella politica. Poi sia a lui che a me piacciono molto le vite degli intellettuali: facemmo un altro reportage su Beppe Fenoglio ad Alba. Un’altra cosa che ci lega ancora è la trattoria, il collante sociale più formidabile degli italiani, e naturalmente il buon vino.
Quale poetica prevale in lei, quella di denuncia o quella romanzesca?
Secondo me prevale la prima, però con gli elementi stilistici della seconda. Nel senso che nel reportage si cerca sempre di cogliere quel senso di destino profondo che non è solo dei fatti del momento, cioè di quello che di attuale può apparire qui ed ora, ma qualcosa di più complesso e sedimentato nel tempo, in quel passato che illumina il presente e lo realizza persino.
Mi racconta il vostro progetto a Iglesias?
Sono andato per la prima volta l’anno scorso a Carbonia per la presentazione di un mio libro. Quando sono sceso dall’auto del mio amico libraio di Cagliari, ho sentito un senso di angoscia che mi prendeva allo stomaco. All’incontro c’era tanta gente, sindacalisti, operai che avevano perso il lavoro. Il Sulcis è una zona che ha subito un forte impoverimento, trentamila disoccupati su centoventimila abitanti, la provincia più povera d’Europa. Ho cominciato a cercare le storie diciamo a tavolino, leggendo libri, in internet, poi ci sono tornato. Ecco, un’altra cosa che mi ha insegnato Dondero è quella che lui chiama “l’arte dell’avvicinamento”, cioè tornare più volte nei luoghi per approfondire, capire meglio, mettere a fuoco, la stessa cosa che ho fatto per il mio libro precedente, Il costo della vita, ambientato a Ravenna, dove sono tornato in un anno trenta volte. La stessa cosa farò nel Sulcis, tra Iglesias e Carbonia, la scaletta sarà rimontata e smontata molte volte, il racconto deraglierà, e alla fine troverà il suo binario e il libro che ho promesso a Chiarelettere verrà fuori. Ho chiesto a Ennio Brilli di accompagnarmi non solo perché ci lega una profonda amicizia, ma anche per il fatto che credo sia molto adatto a questo lavoro che mette insieme paesaggi umani e naturali, com’è per il lavoro di miniera. Secondo me ci divertiremo parecchio.
- A. Ferracuti, Viaggi da Fermo. Un sillabario piceno, con foto di Ennio Brilli, Roma, Laterza, 2009.
- Id., Daniele Maurizi, Il mondo in una regione. Storie di migranti nelle Marche, Roma, Ediesse, 2009.
- A. Ferracuti, Il costo della vita, con foto di Mario Dondero, Torino, Einaudi, 2013.
- Id., I tempi che corrono, Roma, Alegre, 2013.
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