La fotografia dei ‘luoghi’ e gli autori degli anni Novanta
William Guerrieri
La fotografia degli anni Ottanta è stata definita giustamente, pur con le variabili individuali di ciascun autore, come la fotografia dei ‘luoghi’. Si è detto più volte del senso di appartenenza al paesaggio dei fotografi di quel decennio, che si è espresso attraverso una rappresentazione unitaria dell’esterno, insieme alla ricerca della bellezza, un tratto caratteristico della fotografia italiana.
Tuttavia già alla fine degli anni Ottanta la costruzione di nuove infrastrutture, la diffusione urbana, le prime ondate di immigrati, il ruolo dei media nell’informazione e nella cultura, hanno fatto sì che negli anni Novanta una nuova generazione di autori avesse un rapporto diverso con il proprio ambiente di vita.
Nel lavoro di questi autori, il paesaggio e lo spazio urbano sono rappresentati non più solo convenzionalmente attraverso l’esterno, ma anche attraverso frammenti di visione, gli spazi interni e il riutilizzo di immagini preesistenti. I tratti nostalgici che a volte avevano caratterizzato la fotografia del decennio precedente sono del tutto abbandonati a favore di un più disincantato rapporto con l’esterno. Termini come ‘paesaggio ibrido’ e ‘non-luogo’ introducono il tema della perdita dell’identità degli spazi e della difficoltà ad organizzare una rappresentazione unitaria. Non si può tuttavia parlare, a proposito del lavoro di questi autori, di un’adesione alle strategie del postmodernismo, in quanto l’approccio conoscitivo ed etico continua a caratterizzare la ‘modernità’ della loro opera.
Tutto questo si ritrova nel lavoro di alcuni autori del decennio precedente, come Olivo Barbieri e Vincenzo Castella, e negli autori il cui lavoro emerge dai primi anni Novanta come Paola De Pietri, Paola Di Bello, Marina Ballo Charmet, Francesco Jodice, Walter Niedermayr, Marco Zanta e io stesso.
Walter Niedermayr, già alla fine degli anni Ottanta, realizza un progetto sulle Dolomiti, pubblicato nel 1993 con il titolo I monti pallidi, nel quale il suo lavoro si presenta sotto forma di blocchi di fotografie disposte in modo orizzontale e verticale. Fra le ricerche che rivisitano gli spazi urbani con uno sguardo frammentario e meta-riflessivo ricordiamo i progetti di Paola De Pietri e Marco Zanta.
Una diversa esperienza con il reale, attraverso un rapporto di tipo empatico con lo spazio urbano e con i corpi da lei esplorati, costituisce l’interesse di Marina Ballo Charmet, che inaugura un originale percorso di ricerca all’interno della fotografia italiana del decennio.
Nelle ricerche di Francesco Jodice sulle persone che vivono nelle grandi aree urbane, come nel progetto Cartoline dagli altri spazi del 1998, si parla del “senso di disappartenenza”. Infine, con la mia ricerca dal titolo Ambienti Pubblici, esploro dal 1991 interni di spazi pubblici incerti nella loro identità funzionale e con Identità di Gruppo del 1995 utilizzo immagini “trovate”, per una ricerca sulla cultura identitaria del volontariato.
Se questo passaggio generazionale non è ancora stato adeguatamente storicizzato, la rottura linguistica, così come alcuni elementi di continuità (l’uso del colore, il rapporto naturale/artificiale, la percezione del visibile) che si manifesta nel lavoro di questi fotografi possono essere colti in alcune pubblicazioni di quegli anni, come Forma. Visione e visioni del 1994, Passaggi del 1996 e in alcuni progetti pubblici d’indagine realizzati dalla metà degli anni Novanta, come Venezia-Marghera, del 1997, Via Emilia. Luoghi e non luoghi del 1999 e 2000, e nella mostra Idea di Metropoli del 2002.
Spesso si sono indicati questi autori come ‘eredi’ degli autori precedenti. Se è vero sul piano della formazione, in quanto diversi autori degli anni Ottanta sono stati dei capiscuola in assenza di un sistema formativo istituzionale, non è vero per quanto riguarda il linguaggio utilizzato e il rapporto con l’ambiente, che risente profondamente dell’influenza della ricerca internazionale, verso la quale questi autori guardano con particolare attenzione.
Nel dibattito filosofico e culturale di questo ultimo decennio, che si è sviluppato attorno alla necessità di ricostruire una visione etica e civile in un rinnovato rapporto con il reale, con un superamento della stagione del postmodernismo, si è tornato a fare riferimento e ad auspicare un ripensamento della fotografia dei ‘luoghi’ degli anni Ottanta.
La riproposizione di un rapporto sentimentale con l’ambiente di vita, spesso attraverso il ritratto, oggi lo si ritrova ad esempio nel lavoro di autori, come Francesco Neri, Sabrina Ragucci, Federico Covre, Cesare Fabbri e altri, così come nuovamente in alcuni autori della generazione degli anni Novanta. Altre esperienze di ricerca, che si richiamano ai principi dell’arte pubblica, hanno rimesso al centro della loro azione lo spazio identitario del luogo.
Infine, con riferimento all’esperienza di indagine di Linea di Confine, ho proposto di utilizzare l’espressione di ‘coscienza di luogo’, dove il luogo è la sede dei fenomeni e dei flussi riconducibili alla globalizzazione. Secondo questa prospettiva, la nozione di ‘luogo’, piuttosto che espressione di un ritorno ad una visione nostalgica, può acquistare una nuova utilità nella ricerca sul contemporaneo.
The Photography of ‘Places’ and artists of the 1990s
William Guerrieri
Italian photography of the 1980s has been justifiably defined as a photography of ‘places’ despite differences among individual artists. It has been said many times that in photographs of that period the sense of identification with the landscape is expressed through a unified representation of the exterior, alongside the search for beauty, which is considered a defining trait of Italian photography.
However, by the end of the 1980s the development of new infrastructures, urban sprawl, the first waves of immigration and the influence of the media in information and culture meant that in the 1990s a new generation of artists had a different relationship to their environment.
In the work of these artists landscape and urban space are not just represented conventionally through the exterior but also through visual fragments, interior spaces and the re-use of pre-existing images. Nostalgic traits that had sometimes characterized photography of the preceding decade were largely abandoned in favour of a more distanced relationship to the exterior. The use of terms such as ‘hybrid landscape’ and ‘non-place’ introduced the theme of the loss of identity of spaces and the difficulty of organizing a unified representation. One cannot say, however, that the works of these artists adhered to postmodernist strategies since their works continued to maintain a cognitive and ethical approach, which is evidence of their ‘modernity’.
All of the above can be found in the works of some artists from the previous decade, such as Olivo Barbieri and Vincenzo Castella, as well as artists who came to the fore in the early 1990s, such as Paola De Pietri, Paola Di Bello, Marina Ballo Charmet, Francesco Jodice, Walter Niedermayr, Marco Zanta, and myself.
By the end of the 1980s Walter Niedermayr completed a project on the Dolomites, published in 1993 under the title I monti pallidi, which presented groups of photographs arranged both horizontally and vertically. The projects of Paola De Pietri and Marco Zanta ranked among works that revisited urban spaces with a fragmentary and reflexive perspective.
In the context of Italian photography of the 1990s Marina Ballo Charmet set on an original line of activity with an alternative experience of the real through an empathetic relationship to the urban space and the bodies that she explored.
Francesco Jodice’s works on the people living in large urban areas, such as the project Cartoline dagli altri spazi (1998), deal with a ‘sense of non-belonging’ [‘disappartenenza’]. Finally, in my work in Ambienti Pubblici from 1991, I explored the interiors of public spaces of uncertain function and identity. In Identità di Gruppo (1995) I used ‘found’ images for my study on the identitary culture of volunteering.
Although this generational shift has not yet adequately been set in a historical perspective, the linguistic rupture as well as elements of continuity (the use of colour, the relationship between natural and artificial, the perception of the visible) manifesting themselves in the works of these photographers may be glimpsed in publications of the period, such as Forma. Visione e visioni (1994) and Passaggi (1996), some public research projects carried out from the mid-nineties, such as Venezia-Marghera (1997) and Via Emilia. Luoghi e non luoghi (1999 and 2000), and the exhibtion Idea di Metropoli (2002).
These artists were often seen as the ‘inheritors’ of the artists who had preceded them. This may be true from the point of view of training, as various artists of the 1980s were seen as masters in absence of institutional training in photography; it does not, however, apply in terms of the language used and the relationship to the environment, factors that are affected by the influence of international practice (to which the younger artists pay particular attention).
The philosophical and cultural debate of the latest decade, which developed around the need to rebuild an ethical and civil vision through a renewed relationship to the real, thus overcoming postmodernism, brought about a reappraisal and rethinking of 1980s photography of ‘place’.
The reoccurrence of a sentimental relationship to the living environment (often through portraiture) can be found today, for example, in the work of authors such as Francesco Neri, Sabrina Ragucci, Federico Covre, and Cesare Fabbri as well as some photographers of the 1990s. Some other works, referring to the principles of public art, have focused on the identity aspect of place.
Finally, with reference to the research promoted by Linea di Confine (cultural association for contemporary photography based in Rubiera, Reggio Emilia), I have proposed to use the expression ‘coscienza di luogo’ [‘place consciousness/awareness’], where place is the seat of the phenomena and flows ascribable to globalisation. In this perspective the notion of ‘place’ – rather than expressing the return to a nostalgic vision – can take on a new usefulness in investigating the contemporary.
Comments are closed, but trackbacks and pingbacks are open.