Testo di Sisto Giriodi tratto dal suo intervento al convegno ‘L’esperienza del luogo’: Italian photography, writing and landscape. Luigi Ghirri, his contemporaries, his legacy.
Il programma proponeva molti temi, tutti belli, ne ho scelti due: la ‘lettura’ di fotografie (mie) e la ‘eredità’ del lavoro di Ghirri, ma sono temi che non si possono esaurire in venti minuti, così toccherò solo alcuni punti, restando disponibile per eventuali approfondimenti. Io sono stato architetto, fino a due anni fa, e fotografo dilettante da sempre; non ho conosciuto Luigi Ghirri, e anche il suo lavoro l’ho conosciuto tardi, nel 1986, nelle immagini esposte alla Triennale di architettura di Milano; sul catalogo c’era un suo testo, e forse perché citava un blues triste di John Lee Hooker, è stato amore a prima vista… Negli amori a prima vista però è facile vedere quello che vogliamo vedere, quello che non c’è, così io, fermandomi alla superficie, ho preso il suo lavoro per un caso di realismo, ingenuo e sentimentale. Ci sono voluti anni per capire che invece, come canta Neil Young: ‘there’s more in the picture, than meets the eye’. Alla notizia della sua morte, ho scritto a Paola per dirle che Luigi mi aveva insegnato a guardare il mondo, che avrei continuato a guardarlo con i suoi occhi, e Paola mi ha risposto che la mia lettera era la più bella che avesse ricevuto. Dire ‘con gli occhi di Ghirri’ è stata allora una scelta impulsiva, una promessa avventata, parlare oggi di eredità è una questione delicata. Ma ci sono delle coincidenze sorprendenti; infatti posso dire di aver guardato il mondo con i suoi occhi addirittura prima di conoscerlo: quando a Torino, nei primi anni ‘80, mi sono messo a catalogare le mille case ‘geometrili’ degli anni ’50, le pareti dai decori astratti, che ho ritrovato dopo nelle villette del suo Catalogo del 1972; o quando, più tardi, per una ricerca universitaria dovevo fotografare le sponde ‘urbane’ della Dora, e ho deciso di provare a fotografarle tutte di seguito: un lavoro che adesso per me richiama quello che Ghirri aveva fatto per il muro dell’autodromo di Modena , coperto di pubblicità: due sguardi lunghi centinaia di metri.
I miei progetti fotografici, ancora oggi, maturano lentamente, così solo alla fine degli anni ’90, ho cominciato sul serio a guardare il mondo con gli occhi di Ghirri, e hanno preso forma due progetti fotografici, nati da frequentazioni ripetute per anni: nelle campagne pugliesi il primo e nelle campagne del Basso Piemonte l’altro. Il Basso Piemonte, dove sono nato, è stato per me quello che l’Emilia è stata per Ghirri, una terra piena di echi, di miti enigmi, e la campagna pugliese, guardata prima da architetto, ha rivelato temi ‘ghirriani’; guardando a Ghirri, fin dall’inizio questi erano progetti di ‘atlanti personali’, lavori ‘aperti’ di lunga durata, nei quali le immagini erano come frammenti di un racconto, come sogni: dai due Atlanti, che hanno l’uno migliaia, l’altro centinaia di immagini, ho scelto dei paesaggi, che sono paesaggi che hanno sempre dentro qualche cos’altro, si capisce che sono paesaggi ‘abitati’, colti però in un momento di solitudine, che hanno il loro punctum in una traccia della presenza dell’uomo.
Cosa vuol dire ‘con gli occhi di Ghirri’? credo che siano le sue immagini, le sue parole, che lievitano dentro di me, che guidano il mio sguardo a ri-conoscerle in quello che incontro nei miei vagabondaggi: è una cosa che succede e non posso che dire ‘grazie’. Le parole chiave del convegno sono luogo e paesaggio, due esperienze che però non coincidono, il luogo essendo ad una scala ridotta rispetto al paesaggio aperto: Ghirri non fa distinzioni, ma nel suo ‘Atlante’ ci sono più luoghi che paesaggi, e non ci sono solo luoghi e paesaggi. Lui è riuscito a non ‘specializzarsi’, a non fotografare solo luoghi e paesaggi, ma un po’ di tutto, passando con leggerezza dal tavolo, al letto, alle stanze, alle case, alle strade e alle piazze delle città, all’aperto della campagna, del mare, al cielo sulla sua testa, in una sequenza continua, che mi ricorda quella costruita da Perec nel suo Specie di spazi. Ma a rendere comunque riconoscibile il suo lavoro, che cosa unifica tutti questi scatti, queste immagini? Mi viene da dire: il suo sguardo. Ma cosa vuol dire il suo sguardo? Vuol dire che cosa guarda, come lo guarda, e lui guarda quello che ama, realtà miti, con uno sguardo mite; dire mite però non basta, è una risposta da letterato, non da fotografo, così provo a dire: lui guarda il mondo standogli di fronte e poi, dopo gli inizi con apparecchi e pellicole standard, lucidamente, ha fatto una scelta insolita: un apparecchio dal formato (quasi) quadrato, l’obiettivo ‘normale’, per restituire la visione ‘umana’ del mondo, ma, nel formato quadrato il mondo è dolcemente compresso al centro l’occhio non può scappare di lato, distrarsi, il mondo è disarmato di fronte a lui disarmato; è come guardare il mondo nel palmo della mano (Dylan) in una stanza (Rossi); è questo uno sguardo antico, che viene da lontano, è lo sguardo di Rossi, con cui Ghirri condivide l’interesse per lo spazio teatrale, fino a vedere la casa, la bottega, la città, come spazi teatrali; il suo è quindi uno sguardo mentale, che non aderisce al mondo, perché pensa le cose come immagini, e le immagini come pensieri.
Anche nel mio Atlante ci sono più luoghi che paesaggi, e non ci sono solo luoghi e paesaggi, ma anche – come in una canzone di Dylan – apparizioni: sfingi di bronzo, castelli crollati, porte murate, arcobaleni e note in cielo, barche nei prati, specchi e tombe sulle strade; anche in altri lavori, ritornano gli echi, le coincidenze col lavoro di Ghirri: così nel caso del ‘catalogo’ delle bandiere arcobaleno, lavoro che si è capito cosa fosse solo alla fine, perché fotografare la stessa parola centinaia di volte su sfondi sempre diversi, si è rivelata un’operazione concettuale, come quelle di Ghirri sulle parole trovate per strada, nella quale la parola ‘pace’ diventa la didascalia delle immagini, che infatti evocano la pace domestica della vita quotidiana; così nel caso dei rebus murali grandi come le case di un piccolo paese, enigmi che conducono a introdurre delle parole nelle immagini affrescate; così ancora nell’Atlante parigino, anche questo cominciato senza un progetto preciso, se non il ricordo di qualche foto di Ghirri, che solo adesso, dopo dieci anni e centinaia di foto, rivela un senso inatteso: se gli ‘atlanti’ mi hanno portato a riconoscere come mia un’idea di fotografia come antropologia visiva, definizione che potrebbe valere anche per tutto il lavoro di Ghirri, l’Atlante di Parigi, mi ha suggerito un’altra definizione: fotografia come ‘festa mobile’- così era Parigi per Hemingway – che mi sembra una definizione nuova e molto bella anche dell’idea di fotografia di Luigi Ghirri.
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